La grande collezione fotografica di Thomas Walther dal MoMA a Torino
La grande collezione fotografica di Thomas Walther dal MoMA a Torino
È una storia fuori dalla norma quella del collezionista Thomas Walther che, lasciata la Germania con in tasca una laurea in giurisprudenza, si trasferì negli Stati Uniti a fine Anni Settanta per esercitare la professione e dedicarsi alle investigazioni sui crimini di guerra dei nazional-socialisti tedeschi.
La fotografia aveva già attratto il suo interesse quando ancora viveva in Baviera, ma i primi significativi acquisti, finalizzati a dar corpo a una collezione destinata a farsi sempre più ricca, avvennero a New York, attraverso un circuito di gallerie specializzate. È lui stesso a fornire informazioni sulla genesi della straordinaria raccolta che poi, tra il 2001 e il 2017, avrebbe in parte donato e in parte venduto – grazie a generosi finanziatori – al MoMA, contribuendo alla formazione di uno dei più importanti patrimoni fotografici museali del mondo.
Dal 2021 duecentotrenta scatti provenienti da tale raccolta sono in Europa per una mostra itinerante che ha già toccato MASI a Lugano e Jeu de Paume a Parigi, per approdare a marzo 2022 a Camera, a Torino, con il titolo Capolavori della fotografia moderna 1900-1940. La collezione Thomas Walther del Museum of Modern Art, New York.
LA MOSTRA DELLA COLLEZIONE WALTHER A TORINO
La forbice cronologica dell’esposizione si estende da inizio secolo agli albori della Seconda Guerra Mondiale, epoca cruciale per la nascita della fotografia moderna, in Europa come negli Stati Uniti, ma anche lasso temporale di grande interesse per lo sviluppo della cultura in molteplici ambiti: scientifici, artistici, filosofici, nonché per lo studio delle evoluzioni politico-sociali delle singole nazioni che in vari casi si stavano avviando a svolte totalitarie. Non è difficile intuire come il fil rouge della fotografia abbia illuminato anche Thomas Walther nella rilettura della storia della Germania e di tutta l’area mitteleuropea cui la sua stessa famiglia fu profondamente legata.
Complesso il percorso espositivo che, per gruppi tematici – Vita d’artista, Il mondo moderno, Sinfonia di una grande città, Purismi, Realismi magici, Esperimenti nella forma –, apre spiragli di lettura spesso inconsueti. Volendo tracciare a grandi linee il quadro epocale in cui le opere dei più di centoventi autori presenti nelle sale di Camera si collocano, non si può prescindere dall’incipit delle avanguardie artistiche del primo Novecento: Dadaismo, Futurismo e Surrealismo per quanto riguarda l’area centro-occidentale europea, e Costruttivismo per quanto riguarda quella orientale, senza trascurare il centro nevralgico di ricerca costituito dal Bauhaus prima a Weimar e poi a Dessau, dove si coagularono le eccellenze della ricerca d’avanguardia nel campo non solo dell’architettura e del design, ma anche dell’arte e della fotografia.
SPERIMENTALISMI AL BAUHAUS
Fu all’interno della scuola di Weimar che Lázló Moholy-Nagy manifestò un approccio sperimentale al mezzo fotografico – in particolare per quanto riguarda l’uso del fotogramma – che avrebbe influenzato molti altri artisti: basti citare Oskar Nerlinger o Elfriede Stegemeyer. A Camera è possibile vedere il suo scatto del 1928 intitolato Berlino, Torre della Radio, in cui appare trasfigurata in chiave astratta la visione “terrestre” percepita dall’alto del principale mezzo di diffusione di notizie di cui il mondo moderno poteva beneficiare tra le due guerre. La tecnica del fotogramma è invece esemplificata in mostra grazie all’opera di Franz Roh (Lampadina), mentre il côté surreale di quest’ultimo è espresso in Senza titolo, dove un nudo di donna fluttua nello spazio. Tornando al Bauhaus, di Walter A. Peterhans, direttore di grande competenza tecnica della sezione Fotografia a Dessau, sono esposte nature morte concettuali, e di Hannes Meyer, che fu a capo del Bauhaus stesso, l’opera Co-op, 1926 III – Costruzione giocata sull’illusionismo ottico.
LE DECLINAZIONI DELL’AVANGUARDIA
Sono sospese tra Surrealismo e Dadaismo le opere di Herbert Bayer, anch’egli maestro al Bauhaus, e Jindrich Styrsky, che introducono il perturbante tema del manichino; di Maurice Tabard, che ripropone i leitmotiv della maschera, dello specchio, del doppio; di Raoul Hausmann, che fa dell’occhio e della terza dimensione, celata dietro le quotidiane sembianze del reale, i suoi topoi espressivi. Ascrivibili al Costruttivismo le foto di El Lissitzky, di cui è esposto, tra l’altro, il celebre Autoritratto ‒ Il Costruttore del 1924; di Friedrich Vordemberge-Gildewart, autore di Equilibrio (1927-28); di Jaroslava Hatlakova, presente in mostra con Solido nello spazio-ingrandito (1935).
Le impressioni dove il corpo umano è colto nella prestazione ginnica o sportiva – mirabile il tuffo dal trampolino fermato a metà Anni Trenta dall’obiettivo di John Guttmann in Class, una delle icone della mostra torinese – dialogano con le visioni architettoniche improntate all’esaltazione della contemporaneità e delle conquiste della tecnica, come in Veduta dei grandi magazzini Karlstadt, Berlin di Umbo (1929), in Metropolis (City of my birth) di Paul Citroen (1923) o nel potente scatto dedicato nel 1927 al Ponte di Brooklyn da J. Jay Hirz. Mentre i ritratti di note personalità artistiche, come quelli di Jean Cocteau, realizzato da Germaine Krull nel 1929, dell’attore Franz Lederer, “scolpito” nel contrasto di luci e ombre da Lotte Jacobi (1929), o di Edward Weston, firmato nel 1924 dalla compagna di vita e lavoro Tina Modotti, dialogano con scorci di prosaica ma elegantissima routine, come nel caso di Forchetta di André Kertész (1928).
Infine, nel susseguirsi di immagini-capolavoro di autori come Blossfeldt, Brassaï, Cartier-Bresson, Evans, Man Ray, Rodčenko, Sander, Steichen, Stieglitz – sempre declinate nelle gamme infinite e suadenti dei bianchi, dei grigi e dei neri –, non manca qualche nome italiano: i fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia, sperimentatori in chiave fotodinamica, Wanda Wulz, impegnata in modo analogo nel cogliere gli effetti del corpo in movimento, e Luigi Veronesi, maestro d’astrattismi.
Articolo di Alessandra Quattordio – Artribune