Vittorio Sgarbi: “Bisogna creare un catalogo dei beni antichi in possesso dei privati”
Vittorio Sgarbi: “Bisogna creare un catalogo dei beni antichi in possesso dei privati”
Un catalogo dei beni antichi, risalenti a prima del 1920, in possesso dei privati: è l’idea di Vittorio Sgarbi per rendere più agile il mercato e svincolare sia Stato sia mercanti e collezionisti dall’attuale sistema di notifica. Secondo il sottosegretario alla cultura, con un catalogo simile lo Stato conoscerebbe in maniera immediata l’ubicazione delle opere interessanti che finiscono sul mercato, e non si troverebbe a dover notificare opere che poi non vengono acquistate. Lo spunto viene dal recente acquisto del Concerto di Antiveduto Gramatica per i Musei Reali di Torino. Ce ne parla in questa intervista.
FG. La notizia del giorno sono le Sue dichiarazioni in merito all’acquisto del Concerto di Antiveduto Gramatica per i Musei Reali di Torino. Perché lo ha contestato?
VS. Non c’è mai stato un Antiveduto Gramatica che abbia fatto più di 30, 40, 70, 100.000 euro al massimo. Questo è un frammento! Va bene che è… quel frammento lì, ma l’entusiasmo della galleria ha indotto a una richiesta di finanziamento al ministero che è stata poi approvata nel settembre del 2022 dal “Comitato tecnico scientifico”, costituito da tre o quattro studiosi (ed è stato l’ultimo atto del governo Franceschini). Noi siamo dunque chiamati a presentare una cosa che comunque risulta comprata da noi… ma è una spesa dissennata! E pensare che noi abbiamo in Italia un’operatività dei funzionari per cui si arriva a notificare un dipinto di Schifano del 1962! Io ho detto che queste cose non si possono neanche immaginare: nessuna opera che sia, diciamo, più giovane del 1920 merita di essere notificata (per esempio Sironi, Capogrossi, Burri, Fontana), e io ho dato indicazioni con una circolare affinché si eviti di notificare opere che abbiano dieci anni meno di me. Oltretutto Schifano si vende per un milione di euro in America, e si aprirebbe un mercato per un artista italiano come quelli di Burri e di Fontana. Allora, di fronte a un percorso molto frequente nelle soprintendenze, che è quello per cui si vincola questo e quello, che vuol dire restringere il mercato (tema fondamentale di cui ho parlato anche in una conferenza fatta a Modena sul tema dell’assicurazione delle opere d’arte), si blocca un’opera d’arte, si blocca (che so) un Paolini di Voena che si potrebbe comprare, e poi invece si va a comprare un frammento di un autore che vale un decimo di quello che è stato pagato, nel mercato più libero e più costoso del mondo che è il TEFAF di Maastricht. L’opera era lì esposta a un milione, è stata portata a 350.000, l’ha venduta Derek Johns con la mediazione di Caretto e Occhinegro [ndr: in data 3 marzo 2023 la notizia sulla richiesta di un milione è stata smentita dalla galleria, qui la breve], e noi abbiamo approvato il prezzo di un pittore che quel prezzo non l’ha mai fatto. È un’opera comprata nel luogo più costoso del mondo. Avevo fatto un comunicato dicendo che occorre maggiore morigeratezza! E poi è bizzarro che noi dobbiamo fare una conferenza stampa per una cosa che abbiamo comprato senza che noi ne sappiamo niente. Potevamo dire: “Non fate la conferenza stampa”! Cioè non c’è bisogno di glorificare un’impresa che in realtà è molto dubbia perché né la qualità di questo frammentino, né le valutazioni di mercato del pittore legittimano quella cifra.
Però si tratta comunque di un frammento importante: è la parte mancante di una delle opere più note della Galleria Sabauda di Torino, che va a ricongiungersi all’altro frammento già in possesso del museo. E in quale altro modo poteva essere gestita la vicenda secondo Lei?
Si lascia sul mercato! Non c’era bisogno di comprare. Con tante cose più importanti notificate che non vengono comprate… che so, un dipinto di Hayez, un dipinto di Paolini notificati, e che quindi lo Stato ha già calmierato al venditore che li deve vendere a una cifra più piccola. In questo caso, invece, lo Stato ha comprato sul mercato più libero del mondo. Allora non si capisce la logica. È chiaro che le esportazioni sono limitate da una serie di norme che sono punitive: occorre invece immaginare un vincolo che sia davvero un vincolo, per cui io so dove è l’opera che può essere venduta mantenendo a noi la possibilità di fare la prelazione.
E a Suo avviso lo Stato come potrebbe conoscere l’esatta ubicazione delle opere che finiscono sul mercato?
Bisogna potenziare i sistemi di conoscenza del patrimonio privato attraverso un vincolo di conoscenza e non di polizia: le opere che hanno meno di ottanta anni possono essere libere. Forse anche meno di settanta, oppure meno di novanta, mettiamo anche meno di cento. Creiamo un sistema per cui, per esempio, chi ha in casa un dipinto di Previati, o un dipinto qualunque che abbia più di cento anni, è obbligato a comunicarne l’esistenza. Fine. In maniera tale che lo Stato ne ricavi una conoscenza di qualunque cosa abbia un interesse artistico, in un inventario a disposizione dello Stato, con tanto di fotografia. Esattamente come è per la targa di un motorino o per la carta d’identità: perché un’opera d’arte deve essere meno importante di un’automobile? Allora, stabilendo un limite di cento anni, ovvero dal 1920 in su, fino dunque al futurismo e alla metafisica, il possessore comunica alla soprintendenza competente che ha quelle opere, dopodiché non è che la soprintendenza gli impedisce di venderle; quando il proprietario avvisa che sta vendendo quell’opera a Parigi, o viene venduta a Parigi o viene comprata dallo Stato. Dopodiché, se viene venduta a Parigi, allo Stato rimane tuttavia sempre questo microchip per cui alla prossima vendita, essendo comunque la Francia all’interno dell’Europa, lo Stato deve mantenere viva la prelazione, può comprare fino all’ultimo momento. Mi pare molto semplice: non sarà facile farlo, ma garantirebbe un aumento della conoscenza e un limite al vincolo poliziesco. Oltretutto le regole dovrebbero avere una possibilità di controllo, per cui se io dico che un’opera non può essere esportata devo avere una dogana. Adesso siamo di fronte a una limitazione del valore di un bene privato perché lo Stato stabilisce una sorta di usucapione per cui se tu hai un dipinto che puoi vendere a un milione sul mercato internazionale, l’Italia lo vende a 100.000. Con una misura del genere si avrebbe una conoscenza più estesa, un catalogo delle opere private e una possibilità di prelazione. E semplificherebbe tutto.
Qual è la contezza che lo stato ha del patrimonio privato in Italia?
Io non ho ancora visto un inventario dei vincoli delle opere notificate. Però, se possiamo immaginare che nel momento in cui tu vincoli un dipinto di Schifano stai pensando di abbattere lo stadio di San Siro, vorrà dire che ci sono dei criteri bizzarri! Cioè, c’è un bene comune condiviso (lo stadio di San Siro), che ha settant’anni, e che comunque ha il vincolo che io ho sempre reclamato e che dovrà arrivare, che è quello relazionale (cioè è un bene che appartiene alle emozioni e al costume), quindi una cosa che non puoi abbattere… e che invece può essere abbattuta. E invece un dipinto di Schifano non può essere venduto all’estero. È evidente che c’è qualcosa che non funziona. Quindi dobbiamo immaginare una normativa che abbia dei pesi corrispondenti alle cose. Adesso invece ci sono dei meccanismi conflittuali tra il privato collezionista e lo Stato che ricostruiscono uno scenario simile a quello tra Diabolik e Ginko. Così è la psicologia che io ho vissuto quando sono entrato in soprintendenza cinquant’anni fa, e tutto sommato è rimasta. Occorre invece un dialogo. Si prenda l’esempio della Biennale dell’Antiquariato di Firenze: si fa un giro degli stand, si individuano 10 quadri notevoli, ci sono tutti i direttori di musei più importanti che vengono lì e dicono “voglio questo, questo, questo e questo”. Allora l’esigenza del museo diventa un rapporto privilegiato fra il venditore e il museo stesso, e si acquistano le opere. Una volta che questa cernita è stata fatta, non è che le opere dopo dieci giorni vengono sottoposte a vincolo: quello che non interessa allo Stato viene venduto a chi lo vuole comprare. Invece adesso avviene che dopo una settimana che è aperta la mostra, un dato quadro viene vincolato, e non lo si può più vendere. Se poi questo quadro è addirittura del 1962, si fa un’operazione che limita la conoscenza dell’arte italiana: non esiste, facendo un esempio applicato agli Stati Uniti, che uno non possa comprare un De Kooning o un qualunque altro dipinto americano e portarlo in Italia. Quindi noi abbiamo una vincolistica di un paese povero, che durante il fascismo poteva essere depredato (e lo è stato: da Berenson, da Longhi… ), ma oggi il mercato italiano (quello di arte antica soprattutto) è fatto soprattutto da compratori che portano alle aste in Italia i quadri, quindi noi stiamo importando, e questo meccanismo che fanno i mercanti e gli antiquari e i collezionisti va premiato, non va punito. Poi se c’è l’opera clamorosa, fai la prelazione, come fanno in Francia, e la compri. Oggi ci sono meccanismi polizieschi che criminalizzano il collezionista, criminalizzano il mercante e creano anche un’ulteriore disparità per cui chi esporta e vuol vendere un’opera d’arte antica è un criminale, chi fa invece una collezione di arte contemporanea è un mecenate. È tutta una costruzione… e va misurata, soprattutto risarcendo un dialogo tra soprintendenti, direttori di musei e mercanti. Come è stato fatto appunto adesso. Adesso però avviene che quel famoso e rigoroso ufficio che blocca le opere va a comprare a Maastricht un’opera sovrapprezzo… e questo è un paradosso, no? E poi noi che la compriamo abbiamo un comitato che dice che va bene, ma perché va bene se il valore di mercato è 35, 50, 70 o 60, e non 350? Sì, ci interessa il frammento, ma rimane un frammento.
Dunque dovremo aspettarci un’azione sul sistema delle notifiche?
Stiamo già lavorando. Già ho detto di limitare i vincoli per le opere moderne. Poi per esempio nella mostra di Ferrara c’è un ciclo di opere di Lorenzo Costa, una delle quali è da un collezionista italiano che, per paura della notifica, non la presta e non fa sapere dove sta. Apriamo adesso al Mart una mostra su Klimt e sulla sua influenza sull’arte italiana: alcuni prestatori non hanno prestato le opere pensando che rischiavano di essere notificate.
E dopo quello che è successo alla mostra di Rubens a Genova probabilmente situazioni simili si moltiplicheranno.
Lì c’è un ufficio esportazioni che vede passare un quadro che non sappiamo dove fosse, quindi non c’è una provenienza certa, non era in un palazzo se non sul piano indiziario, è stato comprato in una villa dove è stato portato da due antiquari, uno dei due è uscito di scena, lo vende a uno che lo compra… nella speranza che sia Rubens. Allora quando hai avuto la licenza di esportarlo, il Rubeniaum ti ha detto che non è di Rubens, ma è di Rubens e bottega: se è Rubens vale 35-40 milioni, questo è valutato tre. E io lo valuto tre perché ho la benedizione del Rubenianum che mi dice che è di Rubens e bottega: lo porto allora in una mostra pubblica dove mi viene sequestrato, ma l’ho portato in Italia, quindi non è all’estero. È stato esportato legittimamente, è stato esportato non con un nome falso (è stato infatti esportato come “scuola fiamminga”) e non c’è nulla che non corrisponda alla realtà dei fatti, quindi io ho fatto un’operazione così spettacolare per sequestrare delle opere che sono state autorizzate ad uscire, che sono andate dopo qualche anno in valutazione del Rubenianum che mi dice che è Rubens e bottega, quindi dov’è il reato? È inverosimile. Allora questa vicenda di Torino è rappresentativa. Perché uno Stato improvvisamente ricco che se ne frega delle notifiche delle opere che hanno notificato e non le compra, va a comprare nel mercato più ricco pagando il massimo un quadro che vale meno della metà.
Fonte articolo: di Federico Giannini – Finestre sull’arte